Parlare di piatti tipici, in una città dalla storia complessa come Trieste, rischia di essere più complicato del previsto e per spiegarvi il perché è bene riassumere in cinque righe la storia della città: storicamente fedele alla corona Asburgica, fino alla metà del ‘700 Trieste era un villaggetto di 5000 abitanti dimenticato da tutti, persino dai turchi che non si son mai dati la pena di torcerle capello, preferendo incendiare e saccheggiare ben altri insediamenti.
Plot twist: agli inizi del ‘700 l’Austria proclama Trieste Porto Franco e la popolazione passa nel giro di due secoli da 5.000 a 200.000. Il motivo naturalmente non è che i triestini non avendo Netflix si son messi a fare bambini come pazzi, si tratta dell’effetto di un sensibile fenomeno migratorio da tutto l’Impero Austroungarico e dall’intero bacino del Mediterraneo.
Della lingua, della cultura e delle tradizioni di quei 5000 si è sostanzialmente persa traccia quindi quando parliamo di un piatto tipico triestino parliamo di una cosa che è stata presa a prestito dalle culture vicine o da quelle arrivate con l’immigrazione e che ha al massimo due secoli di “carriera”.
La jota, particolare zuppa di fagioli e patate insaporita con l’aggiunta di crauti acidi? Roba slovena. Il goulash? Che ve lo dico a fare, è il piatto nazionale ungherese. I cevapcici, deliziose polpettine di carne macinata e speziata? Chiedete ai serbi cosa ne pensano. La porzina, tuttavia, pur richiamando certe tradizionali preparazioni centro europee, pare sopravvivere solo qui ed ecco quindi le ragioni dell’incoronazione a Piatto Tipico Triestino.
Dunque, di che cosa parliamo quando parliamo di porzina? La porzina è fondamentalmente un lesso di maiale, in particolare tagli della coppa e talvolta della spalla. Si tratta senza dubbio dell’elemento più rappresentativo del lesso “alla triestina”, una preparazione tradizionale che mescola parti piuttosto nobili del maiale ad elementi più poveri e ricchi di ciccia, come appunto la porzina, la pancetta affumicata, costine di maiale affumicate, la “Vienna” (è così che a Trieste si chiama il würstel), la “cragno” (un salsiccia del carso tagliata a grana grossa, dal vago sentore di affumicato), il cotechino, il carré, la testina, la lingua (che assieme alla testina di vitello è l’unico elemento di origine non suina in tutto questo ben di dio), tutto cotto “in caldaia” un calderone in cui bolle il brodo primordiale da cui forse non si genera la vita ma si rinforzano di certo i fianchi.
La caldaia non è un piatto domestico, raramente si fa in casa; la caldaia è il piatto tipico del “buffet”, parola che a Trieste non indica un mobile del ‘700 francese e nemmeno un banchetto in cui ci si serve da soli, bensì un particolare tipo di esercizio commerciale decisamente informale e pittoresco, destinato a spuntini e pasti veloci. Si esattamente quella cosa che voi chiamate fast-food ma che a Trieste esiste da metà ‘800.
Naturalmente Pepi è anche uno scrigno di segreti custoditi gelosamente, il trucco che rende la loro porzina così buona è un concetto esoterico, che solo pochi iniziati possono conoscere, ma se volete cimentarvi in una caldaia domestica vi riassumo per sommi capi il frutto di vent’anni di tentativi di reverse engineering.
Ci vuole un pentolone bello grosso, acqua abbondante (se non siete salutisti aiutate con un po’ di dado, ma se siete salutisti avrete smesso di leggere diverse righe fa), quando l’acqua sta sobbollendo ci ficcate dentro di diversi tagli della carne (se volete un consiglio zamponi e cotechini cucinateli a parte sennò quel grasso li ve lo ritrovano nelle arterie), vanno bene anche vecchi ritagli di prosciutto o di pancetta avanzati, è molto importante che ci sia dell’affumicato, carrè, costine.
Le vienna potete metterle anche dopo, tanto si cucinano in un attimo. Dopo circa un’ora e mezza di cottura la caldaia è pronta. Affettate la porzina, salate se necessario e servitela, come da Dogma Pepi S’ciavo con senape e kren.