Muovere un passo da Gabbia Dischi, soprattutto nei giorni del weekend in cui il centro storico è affollatissimo, è un po’ come incapsularsi per qualche ora in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo. Qui, ormai dal 1911, anno di apertura, a scandire il ritmo delle ore non sono le lancette ma le puntine dei giradischi.
Fin dall’ingresso, tutti gli angoli sono pieni: uno scaffale di qui, uno scatolone di lì, gli spazi vuoti non esistono e tutto ciò che è attaccato alle pareti, al bancone, racconta un pezzo della storia del posto.
Al piano terra si trovano in buona parte nuove uscite di stampo radiofonico-commerciale, diciamo che è la frazione di negozio perfetta o per un piccolo giro superficiale oppure per trovare un regalo dell’ultimo minuto nella certezza di non sbagliare.
Il vero mondo, quello che preferisco, in cui scavare e cercare per ore ed ore, è al piano di sopra. Oltre agli scaffali, ci sono anche dei grandi cassettoni in legno sotto ogni espositore, in uno stanzone in cui nonostante lo smarrimento iniziale, in cui ti chiedi “Da dove comincio? Quale sezione guardo per prima?”, ogni cosa ha un proprio ordine ed un proprio senso.
Tra poltrone e calore dell’arredamento e dei colori, questo piano ha quasi l’aria di un salotto e non è infatti difficile trovarci, soprattutto al sabato pomeriggio, molti collezionisti che setacciano al vaglio le sezioni più curiose, quelle di prime stampe e dischi rari.
Si può interagire, si possono chiedere informazioni al personale che è molto disponibile rispetto a qualsiasi domanda, ma mai invadente. Io per esempio ho un approccio molto “solitario” nella ricerca di dischi, parlo e chiedo poco, e dentro Gabbia mi sento sempre a mio agio grazie all’aria che ha di luogo in cui poter stare dentro, guardare, ascoltare, senza sentire nessuna fretta addosso.
Una cosa che mi piace molto fare quando ci vado è tuffarmi tra i classici italiani, Battisti, Mina, Ornella Vanoni, perché do per scontato che non ci sarà nulla che non conosco, ed ogni volta invece riesce a saltare fuori qualche chicca inaspettata.
Federico Gabbia, il quarto della generazione alle prese con la musica, è l’erede delle “macchine rotanti”, come venivano chiamati i giradischi ai primi del ‘900 da chi non riusciva a capacitarsi di come potessero uscire suoni e voci da un apparecchio infernale. Gli chiedo di stilarmi una playlist di 5 vinili di tutta la discografia Gabbia.
“Possiamo cominciare da un’opera cantata da Pertile, la Manon Lescaut, di cui esponiamo la dedica di Puccini, entusiasta del nostro tenore di Montagnana – dice – oppure l’imperdibile “Abbey road” dei Beatles. Ricordo poi le code davanti al negozio per acquistare “Dark Side of the moond” dei Pink Floyd e quelle per “Black Star”, il testamento di David Bowie, fino a Gilmour sempre dei Pink Floyd”.
Poi, conclude con una vena di nostalgia, “Anche noi ci sentiamo un po’ solisti con mille problemi, ma anche con mille soddisfazioni nel vendere il prodotto meno banale che ci sia perché fatto di ispirazione, sentimenti ed emozioni”.