Un pomeriggio di metà anni ’80, un uomo parcheggia la sua auto con rimorchio davanti a un ex-cantiere navale a Pescantina, Verona. Ci entra e intavola una trattativa: un’ora dopo, riparte con il rimorchio carico di timoni, alcune ancore e chiodi fatti a mano.
È anche attraverso incontri come quello appena immaginato che è nata la collezione del Museo della Navigazione Fluviale di Battaglia Terme, a mezz’ora da Padova, costituito dal corpus di reperti fluviali raccolti in oltre trent’anni – da Milano a tutte le città sul Po, spingendosi fino al Friuli – dall’ex-barcaiolo di Battaglia Terme Riccardo Cappellozza.
Situato negli spazi comunali di un ex-macello e affacciato sul punto di confluenza fra i corsi d’acqua Battaglia e Rialto, più che una raccolta di oggetti il museo custodisce oggi la storia di una dimensione perduta: “Quella della navigazione a vela sulla rete di fiumi e canali, che a questo paese ha dato vita. E, con essa, le storie dei barcaioli che percorrevano le reti fluviali interne, dai Colli Euganei alla laguna di Venezia, lungo le vie d’acqua della Pianura Padana”.
A raccontarlo fra vecchi salvagente, ricostruzioni in scala di antichi ponti e l’allestimento di una piccola cucina di bordo è Elena, in passato archeologa e da due anni guida all’interno del museo: “Battaglia Terme è un borgo medievale fluviale, senza cinte e fortificazioni, completamente cresciuto intorno all’attività dei trasporti via fiume. Fino agli anni ’50, quando a prevalere fu il trasporto su gomma e tutte le professioni legate alla dimensione fluviale furono trascinate via. Il Museo raccoglie una storia recente, completamente scomparsa”.
Attraverso tre piani allestiti come gli interni di un’imbarcazione, a farsi voce di una realtà non più esistente sono alberi maestri, barche sospese nell’aria e documenti, insieme ad arredi di bordo, centinaia di fotografie e strumenti di lavorazione delle barche.
Da una parete, un uomo ride in bianco e nero appoggiato al proprio remo, Elena racconta che qualche giorno prima un visitatore ha riconosciuto in quella fotografia il proprio nonno. Sotto teca, alcuni modellini attendono di poter salpare verso la laguna sulle stesse idrovie un tempo percorse dai burci: imbarcazioni a doppia vela e fondo piatto, “sono gli antenati dei tir” – così alcune righe dal libro L’ultimo dei barcari, che sfoglio all’ingresso del museo – “Per secoli hanno solcato le vie d’acqua, trasportando merce di tutti i tipi, dal grano alla trachite. Poi il progresso li ha spazzati via: si sono estinti a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, inghiottiti nel buio”.
A ottantotto anni, oggi Cappellozza è anche uno degli ultimi barcaioli: “Lo era anche mio padre e ancor prima mio nonno. Al tempo, i primogeniti avevano il diritto di studiare, ma finita la guerra mio padre mi chiese di dargli una mano per un anno per via dei pesanti danni causati dai mitragliamenti all’imbarcazione”
“Salii a bordo nel ’45 – ricorda Cappellozza – e scesi vent’anni dopo. La navigazione è un’avventura, un mondo sconosciuto alla terraferma: l’aria, il sole, il vento, e poi la neve, la bora, il mare grosso. Il grande amore per la vela, la forza del vento nelle tue mani sul timone. Una volta, una conoscente mi disse: Non sapevo fossi un poeta. Non sono un poeta, ma ho vissuto in mezzo alla poesia”.
Fra i primi oggetti raccolti da Cappellozza a partire dagli anni ’80, le ancore: “Compravo materiale in cantieri navali dismessi, ma ho ricevuto anche molte donazioni da amici e conoscenti barcaioli. Vele, attrezzi da lavoro, effetti personali usati a bordo. Negli anni, ho consumato quattro macchine per portare qui ciò che trovavo. Un giorno, prima che nascesse questa realtà, ero qui con un amico bibliotecario e lui osservò che il materiale raccolto era ormai così ampio che si poteva pensare a strutturare un museo. Dall’emozione, passai le tre notti seguenti senza dormire”.
Oltre a scolaresche e appassionati di navigazione, a visitare il museo sono spesso anche gli stessi barcaioli – voci narranti che arricchiscono la visita con i propri ricordi. Come quelli di Loris, che lavorava però su barca a motore: “Ci chiamavano zingari del fiume, eravamo sempre in movimento. Percorsi l’ultimo tratto in barca nel 1968, raggiunsi Pellestrina. Quando il lavoro venne meno, riuscii a vendere la barca a un dentista e andai a lavorare in fabbrica. Di recente, un amico mi ha chiesto di accompagnarlo sulla tratta da Mezzavia, una località qui vicino, a Battaglia. Da lì abbiamo visitato tutta la riviera e le isole”.
Ha cambiato sì mestiere, recita una poesia dialettale appesa alle sue spalle all’ingresso del museo, Ma la testa sta sempre là / su canali, lagune, paesi con questo liquido / Vena che unisce il mondo.
L’ultimo giro in burcio di Cappellozza è stato invece nel 1962: “Fu la tratta Venezia-Mantova. Poi andai a lavorare come manovale. Ho tanto sofferto ad abbandonare la mia barca, che ogni notte sognavo di navigare con mio padre. Oggi non mi manca più: il mio desiderio è scrivere e raccontare della vita di noi barcari, anche attraverso il museo”.
A commentare l’importanza del patrimonio galleggiante raccolto nella collezione è anche Maurizio Ulliana, presidente di Traditional Venetian Boats, associazione di recupero e restauro di imbarcazioni tradizionali venete che ha in gestione il museo e propone anche escursioni fluviali: “Qui è raccolta la storia di un mondo vivo fino a cinquant’anni fa, rimosso troppo velocemente”.
“Con i materiali qui presenti si potrebbe costruire una barca – dice Ulliana – Alla città di Battaglia Terme il museo offre una memoria storica centenaria, al visitatore la possibilità di entrare in contatto con un mondo sconosciuto. E di ragionare sull’oggi, sul rapporto con l’habitat fluviale. E sull’acqua come punto di riferimento per vedere le cose: a differenza di quella in mare, la navigazione interna vive un continuo rapporto con la terra e con chi la abita”.
Mentre mi accompagna attraverso la sala della navigazione, Elena suggerisce di proseguire la scoperta di Battaglia con una visita alla reggia monumentale del Castello del Catajo, mentre i suoi consigli per un ristoro sono il bar Baccanale e il ristorante di pesce El Barcaro.
Nel salutarmi, condivide una riflessione: “Quello del barcaro è un lavoro di cultura. Dal 1800 a metà anni ’50, la situazione del territorio non era come adesso. Chi viveva qui, lavorava i campi. Nasceva, cresceva e moriva a Battaglia Terme. I barcaioli partivano da qui e arrivavano a Venezia, uno dei porti maggiori fino all’Ottocento. E lì arrivava il mondo: toscani, liguri, siciliani. Al loro ritorno, i barcari portavano ciò che avevano visto, le parole che avevano sentito, i racconti di altre terre”.
È una frase a cui ripenso quando lascio il museo, intorno al quale si estende una campagna che i Colli Euganei cingono via via digradando. La prima idea di mare è a cinquanta chilometri scarsi: mi chiedo se, per raggiungerla, basterebbe il vento che soffia qui.