A Torino, quando l’aria carica di neve delle Alpi torna puntuale a pizzicare le narici dei cittadini, gli operai che tirano i cavi di acciaio da un capo all’altro dei portici di via Po sono una presenza rassicurante che annuncia l’imminente arrivo dei corpi celesti di Palomar, l’installazione che l’artista Giulio Paolini ha dedicato all’omonima opera di Italo Calvino.
Si tratta di una costellazione di stelle, mezzelune, sfere e meridiani presieduta da un funambolo giocoliere, perché “se non ci è dato vedere l’universo per intero”, dice l’autore, “non ci resta che evocarlo”.
Palomar è solo una delle primissime opere con cui nel 1998 nasce Luci d’Artista, il progetto di illuminazione pubblica della città di Torino. Da allora a cavallo tra l’anno che sta finendo e quello che verrà decine di sculture luminose firmate da artisti contemporanei del calibro di Michelangelo Pistoletto, Rebecca Horn e Daniel Buren vengono issate a riscaldare il paesaggio urbano, le compere natalizie e i rientri notturni.
Partiamo da piazza della Repubblica. Sono 39 le lingue che Michelangelo Pistoletto ha usato per dar voce al suo manifesto: Amare le differenze. Una sola frase, un messaggio essenziale, tradotto e ripetuto a formare una composizione di luci che colora la facciata del mercato di Porta Palazzo, crocevia di culture e sfumature epidermiche.
Sempre di lettere e neon si tratta quando parliamo di Luì e l’arte di andare nel bosco di Luigi Mainolfi, uno dei must della mia infanzia, una fiaba che si snoda in frasi colorate lungo una via pedonale del centro dove la gente per mesi è destinata a inciampare guardando all’insù. Quando ero piccola, per mano a mia madre indaffarata per le compere natalizie, cercavo disperatamente di leggere la fiaba, ma lei andava sempre troppo veloce e non percorrevamo mai la via dall’inizio alla fine, così una delle prime cose che ho fatto quando ho iniziato a prendere il pullman da sola è stata andare a leggermi la storia di Luì che se ne andava nei boschi perché la città era piena di rumore.
Un sapore di infanzia più maturo, razionalista oserei dire, si respira in piazza Palazzo di Città, sotto il Tappeto volante di Daniel Buren, un reticolo di lanterne cubiche colorate di bianco, rosso e blu.
A decorare piazza Carlina è il Regno dei fiori: nido cosmico di tutte le anime, titolo che reca in sé la firma dell’inconfondibile e visionario Nicola De Maria, torinese di adozione, che una notte, sorvolando la città, ha ideato un’opera che trasformasse i lampioni delle piazze in nidi di colore, punto di contatto e ristoro di tutte le anime.
Sul porfido di piazza Carignano, meno colorate ma altrettanto mistiche, la recentissima Cosmometrie di Mario Airò.
Rebecca Horn, invece, è un’artista tedesca nata nel 1944, un anno primo della fine del secondo conflitto mondiale, quando la sua lingua madre era diventata difficile da ascoltare. È per questo che parla del disegno come di un linguaggio privo di sospetti: “Non dovevo disegnare in tedesco, francese o inglese. Potevo semplicemente disegnare”. Ed è con questo spirito universale, del segno senza mediazioni, che Piccoli spiriti blu è sbarcata sul Monte dei Cappuccini a illuminare la chiesa di Santa Maria.
Luci d’Artista negli anni si è arricchita di opere e luoghi espositivi. Spesso per i torinesi l’incontro con le luci è casuale, soprattutto quando da un’edizione all’altra un’installazione cambia inaspettatamente location, allora tutti, anche quelli più scettici, non mancano di esprimere la loro opinione: la preferivo di là, sta meglio da quest’altra parte.
La visita più esaustiva è offerta dal Luci d’Artista Special Tour a bordo del bus City Sightseeing. Molti non disdegnano una più circoscritta ma romantica passeggiata romantica post cena, mentre io, a dirla tutta, sono più affezionata alla versione solitaria, dopo la mezzanotte, quando le luminarie sembrano parlarti nella notte deserta.