Sono tutti in felpa e cappuccio nonostante il sole stia tramontando dietro i casermoni del quartiere San Paolo, tra le macchine in coda ai semafori, lasciando presagire che la temperatura scenderà ben al sotto dei cinque gradi di adesso. La superficie delle collinette è liscia, grigia, e loro ci scivolano sopra veloci, si incastrano e ripartono, saltano su muretti e passamano. Sono parte di un mondo parallelo, semanticamente altro, che vive per lo skate e sullo skate. La sensazione che ho, guardandoli dal bordo del Marmolada Skatepark – il nuovo skate park di parco Mennea, in piazza Marmolada, o Marmoland, come hanno iniziato a chiamarlo loro – è simile a quella che ho provato stando davanti alle grandi vetrate dell’acquario di Genova. I movimenti fluidi contro il tramonto mi ipnotizzano.
Qui, dove un tempo c’era solo sterpaglia abbandonata, il disegno di Tommaso Lanza e Andrea Boido ha dato vita alla prima area torinese interamente dedicata agli skaters, una decina di rampe in cemento, 1600 metri quadrati attrezzati con tutto ciò che serve. Dopo le scalinate del Regio dietro piazza Castello e lo Spot di piazzale Valdo Fusi, dove lo skate ha fatto sua la città, questa volta è la città a far suoi gli skaters. “Grande fra’”, “Ehi, mi riprendi?”, “Scusa, ora devo andare”. Così tra un giro e l’altro rubo frammenti di conversazione, tempo prezioso tolto alla tavola. “Lo skate ha a che fare con la paura”, dicono.
“Ci giochi tutti i giorni, tutti i momenti. La superi, e che tu atterri di culo o chiuda il trick è la stessa cosa: al prossimo giro sai che tornerà, fa parte del gioco, ma tu rimani in pista; sai che è lì con te, ma non la fai vincere. L’unico modo per imparare è sbucciarsi le ginocchia, cadere e rimettersi su. Lo pensi sempre, no? Che paura, cazzo – io almeno lo penso sempre”, dice Max, “ma poi la superi, c’è un compagno che ti da la gasa giusta, ti sprona e allora vai. E quando ce la fai, beh, ti senti da dio”. Questo stanno cercando di spiegare a Marco, un ragazzino, il più piccolo di stasera, che inghiottito nella sua felpa gialla, rigorosamente overzise, in un misto di rabbia e frustrazione si lamenta a bordo pista: “Vorrei fare un ollie south, ma ho paura”. Nel frattempo i lampioni si accendono. Si continuerà fino a tarda sera.
Gli skater interpretano la città, i suoi respiri, le architetture, attraverso lo skate. Frequentano negozi dove possono comprare ricambi, ruote, accessori, attrezzi – da Skateboarding’s Finest a Jimmy Sport, che si trova proprio qui accanto – tracciano le strade da percorrere, chi va a scuola ci va in skate e appena suona la campanella si fionda qui, o in piazzale Valdo Fusi, ovunque possa allenare ciò che ancora non è perfetto, aggiungere un grado di paura. Chi è troppo piccolo per andare e venire da solo si lamenta quando le madri lo trascinano a casa per la cena.
Anche i pasti si consumano tra le collinette e le gradinate, spesso sono panini che spuntano dagli zaini, si sbocconcellano quando la fame inizia a farsi sentire e poi subito si torna in pista. Nick piegato basso sulle ginocchia segue un compagno con il telefono in mano. I loro profili Instagram iniziano a riempirsi di foto e video di Marmoland, ma per lui tutto è skate, mi fa vedere scatti di Parigi e la protagonista è sempre lui, lo skate che scricchiola e stride, sfreccia viva sotto i loro piedi.
Quando gli chiedo come abiti lui la città mi fa vedere la foto di un una larga scalinata divisa da un mancorrente. “Questo per chi non skeita è solo un corrimano”, sorride.