Leggenda vuole che un gruppo di tassisti ogni settimana passasse dall’Osteria Bianchi e, fra una chiacchiera e l’altra, decantasse uno squisito merluzzo fritto assaggiato in una delle altre osterie della città. Il signor Franco, intravista la sfida, li invitò a tornare il sabato successivo ad assaggiare la sua versione del piatto. I tassisti non sapevano che stavano dando il via a una tradizione: il merluzzo fritto, (che in bresciano si chiama bertagnì), del sabato dell’Osteria Al Bianchi. Da quel momento il sabato mattina è “una guerra di vini bianchi, birre e merluzzo fritto”. Il vino più servito è quello di mescita, ma quello preferito di Franco è il Chiaretto, un vino fermo locale che arriva dalla Valtenesi.
L’Osteria Al Bianchi si trova vicino a Piazza Loggia, proseguendo dritti alle spalle del monumento in marmo alla Bell’Italia dedicato ai caduti delle dieci giornate. All’entrata un bancone imponente, di marmo e legno, occupa gran parte dell’ambiente. Ci sono tavolini in marmo, a forma di mezzaluna e panche. In questa parte del locale l’aria sa di caffè e di bicchieri bevuti al volo, fa pensare a quei momenti solitari che ci si concede solo in luoghi dove ci si sente a proprio agio, fiduciosi che nel caso si vogliano scambiare due battute la solitudine potrà sfociare velocemente in compagnia.
Questa dinamica delle osterie mi ha sempre affascinata: il fatto che un aperitivo possa trasformarsi repentinamente in una sorpresa, e che persone sconosciute in un baleno possano diventare le migliori confidenti. Sono felice di ritrovarla in una città come Brescia, dai ritmi spiccatamente lombardi, in cui sembrerebbe dominare solo la frenesia della produttività.
E, a proposito di produttività, ecco la storia del proprietario dell’Osteria Bianchi: Franco, ha 83 anni, e viene dal quartiere Lamarmora, che ai suoi tempi era campagna, e ha sempre abitato in città. Dopo vent’anni di lavoro come rappresentante di ditte di alimentari biscotti e dolciumi Franco decide di rilevare l’attività della cognata e dal ‘79 è il proprietario dell’Osteria Al Bianchi. Durante l’esperienza in marina ha carpito molti insegnamenti dal cuoco di bordo, e l’idea di tornare in cucina in un locale suo è decisamente allettante. Passare dall’altra parte del bancone però è meno facile di quanto immaginava, ci si deve abituare a un altro ruolo, a un diverso rapporto con le persone. Il sacrificio dei primi anni con caparbietà e cocciutaggine si tramuta in bellezza e nell’ambiente festoso e intergenerazionale che è oggi: volti più e meno giovani, “dai 15 ai 90 anni”, iniziano a frequentare l’Osteria come luogo di elezione.
I suoi occhi durante il racconto di questi quarant’anni di attività, sono lucidi di orgoglio: al Bianchi è il suo gioiello, “una vecchia Osteria con un po’ di brillantini” che il figlio Michele e il genero, con i nipoti e alcuni colleghi, continuano a gestire con passione e in cui si sono avvicendati ospiti “di tutti i tipi”.
Franco non fa nomi per la riservatezza che lo caratterizza, ma immagino un bel contrasto di volti ed estrazione sociale dei clienti seduti a questi tavoli di legno massiccio di fine Ottocento per assaggiare i piatti tipici della tradizione bresciana.
Il menù è un tripudio di risotti, bolliti, trippa, lasagne e, per qualche anno, lo spiedo ha fatto da padrone. Rimane il piatto che Franco preferisce, anche se con gli uccellini non si può più cucinare. I casoncelli e i malfatti sono il piatto più richiesto e apprezzato: il ripieno dei casoncelli è a base di carne, mentre i malfatti sono a base di pane in ammollo nel latte, ricotta, spinaci e “formaggio formaggio formaggio”.
Perché Al Bianchi non lavorano donne? Franco non ama certi sguardi o atteggiamenti poco rispettosi che potrebbero verificarsi, quindi nessuna donna lavorerà mai Al Bianchi oltre a sua moglie, che per via di questo suo status gode di un trattamento di favore. L’intervista è finita e Franco mi confida che “pensava fosse peggio”, una risata e un buffetto dopo siamo seduti al tavolo con tutta la sua famiglia, per mangiare insieme e per brindare all’inizio di un’altra giornata lavorativa. Chissà quante altre storie si avvicenderanno qui oggi, mi chiedo prima di uscire.