Enrico Remmert è uno scrittore torinese che dal 1997 colleziona premi nazionali e internazionali. Ha già dedicato ai territori in cui vive e che ama “L’acino fuggente. Sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e Roero” (Contromano Laterza). Ora, nel suo ultimo libro, “La guerra dei Murazzi” (Marsilio) è la capitale sabauda, con i suoi luoghi, la sua storia e i suoi abitanti, a prendere il sopravvento. Lo abbiamo incontrato per farci guidare alla scoperta della sua Torino.

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Se dovessi tracciare una mappa della tua Torino, da dove partiresti?
Dalle piazze piccole. Piazza IV marzo, piazza Emanuele Filiberto, piazza Carlina. Queste tre sono quelle a cui sono più affezionato, ma ce ne sono tante. Sono tutte piazze un po’ meno in vista, dove la dimensione è quella giusta, a misura d’uomo. Proprio in una di queste piazzette c’è un posto dove vado spesso a pranzo, il Pastis.

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Il bere migliore, invece, direi al Mad Dog o da Salvo al Barz8, che è in Gran Madre. Amo anche alcuni posti in San Salvario, uno tra tutti il circolo Arci Sud, da Max, che è una persona speciale.

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Come trattoria dico Osteria Pierantonio, vicino al Lingotto. Per mangiare pesce, invece, si va da Benito, mentre la pizza per me è La Madama della Rocca.

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Ne “La guerra dei Murazzi” citi uno dei grandi protagonisti della città, il Po: il fiume che “non ha mai smesso di scorrere”.
Sì, è quello per cui costruirono i Murazzi, che sono le strutture con cui lo arginarono, poi trasformatesi in ripari per le navi e infine in locali notturni, ora purtroppo chiusi. Per certi versi i Murazzi erano veramente un posto unico al mondo, perché lì c’era quello che ai tempi si chiamava melting pot: trovavi dal vecchio nobilastro nipote di qualcuno della corte dei Savoia al figlio dell’ultimo operaio calabrese, tutti insieme. E quella è un po’ Torino: una natura mista. La stessa cosa vale per l’immigrazione di oggi, perché questa città non ha mai costruito ghetti per una sola etnia: Ahmed abita nello stesso palazzo del signor Hu, del signor Pautasso, del signor Petrescu. Mi sembra che rappresenti l’unica strada del mondo.

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Tu scrivi di luoghi tridimensionali, resi vivi dalla loro storia e dalle persone che li abitano. In che rapporto stanno, secondo te, la città di oggi e la Torino operaia?
Torino potrebbe essere una sorta di Detroit anni Novanta, una città fantasma. Invece ha trovato delle risorse, forse anche inaspettate, ed è rimasta in piedi anche dopo la Fiat. Anzi, è molto migliorata. Certo le Olimpiadi del 2006 hanno aiutato moltissimo a sviluppare il turismo, ma ci sono anche delle realtà come Porta Palazzo che sono uniche: uno dei più grandi mercati d’Europa, un altro fantastico esempio di melting pot, con dall’altra parte (le domeniche in cui c’è) il Gran Balon. Così in pochissimo spazio un turista trova dalla piramide di arance al mobile del Settecento.

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Insomma, se Torino fosse una donna sarebbe una donna da seconda occhiata: magari alla prima non la noti, ma alla seconda non solo la noti, ma te ne innamori.