Il rumore di 180 telai rimbomba sotto i capannoni sorretti da tubi di ghisa. L’aria è umida, perché per filarlo, il cotone, lo si deve bagnare. Siamo alla fine di corso Francia, a Collegno, nella primissima cintura di Torino. È il 1915 e il cotonificio della famiglia svizzera Leumann non è solo più un centro di produzione, ma un vero e proprio villaggio: il villaggio Leumann. Al suo interno abitano circa 1500 persone. All’inizio prevalentemente donne, perché per filarlo, il cotone, servono mani fini.
La guida ci mostra il convitto per le duecento operaie minorenni. Noi invece siamo più di una ventina e altri gruppi attendono alle nostre spalle. Nonostante il tempo non sia clemente, una volta varcato l’ingresso del villaggio si ha la sensazione di entrare in un altro tempo, in un’altra atmosfera. I volti dei visitatori si distendono, c’è chi sotto l’ombrello riesce a tenere aperto un taccuino.
“A dirigere l’azienda era Napoleone Leumann”, inizia la guida, figlio di Isacco Leumann, “tessitore migrante arrivato in Italia nel 1834 per cercare lavoro e, nel 1854, divenuto a sua volta imprenditore. Qualche decennio dopo, approfittando dell’emorragia di sgravi fiscali e svendite di terreno che lo spostamento della capitale aveva generato nella città sabauda, Napoleone decise di trasferire il cotonificio qui a Collegno. Aveva però tutta la manodopera specializzata a Voghera e decise di spostarla con lui”. Ecco poste le basi per la nascita del Villaggio Leumann: 60mila metri quadri di terreno e operai che vengono da tutto il nord Italia: Lombardia, val di Susa, valli di Lanzo, Valle d’Aosta.
Passiamo davanti a un grosso lavatoio in pietra. “Qui già a fine Ottocento c’era l’acqua calda per lavare i panni”. Ci spostiamo tra casette in indipendenti, ognuna con il suo piccolo pezzo di verde. Dalle finestre sporgono fioriere decorate in ferro battuto.
La guida ci spiega che l’azienda forniva fiori stagionali e che ogni anno veniva eletto il miglior giardino del villaggio.
Spesso qualcuno rimane indietro a osservare un dettaglio di un liberty inusuale, sobrio, un fregio metallico, un quadratino di vetro blu smeraldo che risalta contro la pittura gialla. “Dopo aver visitato diverse esposizioni universali con prototipi di case per lavoratori Napoleone Leumann decise di affidare la progettazione architettonica all’amico Pietro Fenoglio”.
L’ingresso fiabesco, la cancellata che affaccia sulla stazione dove il trenino a vapore ferma regolarmente, l’albergo dove vengono ospitati visitatori e commercianti. Ci fermiamo accanto al refettorio, che oggi ospita un centro anziani. Dalle finestre, su tavoli ricoperti di feltro verde, gruppi di persone che giocano a carte. Viene costruito un teatro, un bagno con vasca prenotabile a turno da tutta la famiglia, un cinematografo e la palestra, dove si possono frequentare corsi di scherma, calcio, ciclismo e fisarmonica. E i telai continuano a girare.
Nel frattempo si accendono i lampioni e il villaggio viene pervaso da un’atmosfera natalizia, fuori dal tempo.
“Napoleone però non si fermò all’aspetto famigliare e ricreativo. Voleva che nel suo cotonificio si possa stare a casa e ben conoscendo le condizioni di lavoro era convinto che fosse meglio avere manodopera in buona salute per un giorno in meno, piuttosto che malata per un giorno in più”. Il gruppo annuisce convinto.
“Costituisce allora, dopo aver istituito un fondo pensionistico, anche una cassa malattia, una sorta di mutua ante litteram. Proprio accanto ai capannoni fa costruire la casetta del medico e fuori dalle porte del villaggio c’è sempre un’ambulanza carro pronta a partire per l’ospedale Maria Vittoria, dove il cotonificio ha due posti riservati”.
Il cotone è umido, il lavoro duro, ma la vita si fa più dolce e iniziano a nascere amori e con loro l’asilo nido dotato di tre puericoltrici per una media di cinque bambini, la materna, le elementari e, successivamente, le scuole serali dedicate ai genitori che, vedendo arrivare a casa figli più istruiti di loro, chiedono di poter frequentare le lezioni.
Dopo aver superato gli edifici scolastici entriamo nella chiesa di Santa Elisabetta, nome della madre di Napoleone, “perché voi entrate nella casa di vostro padre ma anche in quella di vostra madre”. “Qui”, spiega la guida indicando le griglie che corrono lungo tutto il perimetro, “il locale era riscaldato facendo passare l’acqua di raffreddamento delle turbine”.
Negli anni Settanta però, investimenti azzardati e la crisi del tessile portano alla chiusura del cotonificio. A chi ha più di 55 anni Napoleone Leumann paga la pensione, a chi ne ha meno versa all’INPS i contributi della cassa che ha costituito. Delle 59 casette solo due sono riscattate dagli operai, le altre vengono rilevate dal comune, trasformate in strutture assistenziali e case popolari. Un piccolo museo allestito dietro la chiesa di santa Elisabetta ricostruisce con pezzi originali gli ambienti domestici che furono, mentre nei grandi capannoni sorge l’Outlet Diffusione Tessile, dove importanti marchi di moda hanno il loro spaccio aziendale. Sbirciando dentro le vetrine, tra le luci e i capi moderni, la guida ci invita a osservare i tubi di ghisa dipinti di bianco che sorreggevano la struttura originale.
Dopo un paio d’ore tutti i gruppi di visitatori si ritrovano nell’edificio scolastico, dove l’associazione di volontari che gestisce i tour – tutte le prime domenica del mese – ha allestito una merenda con tè caldo e panettoni. Le persone che hanno partecipato alla visita si scambiano commenti stupiti, ammirati. Guardano le foto appese ai muri, la testa tonda e piccola, lo sguardo dolce di Napoleone Leumann. Stringono con entrambe le mani i bicchieri fumanti. C’è chi continua a fare domande e chi, silenzioso, guarda fuori dalla finestra i viali illuminati, immaginando la vita di un tempo e il rumore dei telai.